Cos’è la Gestalt?
Presenza, consapevolezza e responsabilità sono i presupposti fondamentali del processo di crescita. In questo percorso possiamo dare un significato, oggettivo e soggettivo, alla nostra esistenza nel mondo. Cos’è la Gestalt? E’ una prospettiva e una pratica nel porsi in contatto con la vita. E’ una pratica di consapevolezza per convogliare le nostre energie nel presente e nell’esperienza del contatto con gli altri, nel qui e ora, la sola dimensione in cui l’essere umano ha potere.
La Gestalt, come terapia, non è una tecnica in sé, e nemmeno può essere definita un insieme di tecniche, semmai è un metodo. Nel campo della relazione d’aiuto, considera la presenza, del terapeuta -conduttore o facilitatore- in quanto persona, al di là del suo ruolo.
Focalizzarsi sulla relazione in atto e presente col cliente, è un intento ambizioso; è anche la strada più diretta per far uscire in modo visibile meccanismi distorti di relazione e difese psicologiche verso figure di riferimento disturbanti. L’attenzione alla relazione è anche il sistema più consapevole per generare al cliente un’esperienza emozionale correttiva dei traumi da cui ancora continua a proteggersi.
Accettare il proprio vissuto, soprattutto emozionale, nel proprio presente e nella relazione è il passaggio centrale e indispensabile.
Il contatto interpersonale suscita sentimenti che veicolano energia.
Nel contatto con l’altro, l’espressione di sé produce libertà. Questa libertà permette alla creatività di sostituire le strategie e gli schemi di adattamento difensivo.
In questo modo la nostra esistenza si prospetta come un cammino di scelta responsabile, che unifica le nostre esperienze, la nostra vita organismica, con quello che “accade” nel mondo attorno a noi.
La consapevolezza nasce dalla capacità di osservazione e di ascolto, di se stessi oltre che degli altri. Essa nasce in primo luogo dall’esperienza del contatto, con l’ambiente, con le persone e con le proprie esperienze vitali, fisiche ed emozionali.
L’energia sostenuta dalle emozioni quando le diamo forma espressiva, diviene realtà percepibile, permettendo uno scambio migliore fra l’essere umano e il mondo esterno.
Attraverso la creatività, i problemi, in quanto situazioni di impasse di schemi ripetitivi, trovano soluzioni che nascono da nuove configurazioni.
Gli ostacoli nella propria realizzazione o le difficoltà di relazione possono così diventare occasioni per trasformare in modo più maturo e responsabile la propria realtà.
Responsabilità
La responsabilità personale è una questione centrale nella Gestalt. Questione sempre aperta nel corso della vita, perché la responsabilità nei confronti di se stessi è il fattore che regola il gradiente e il percorso di crescita e di maturità personale.
Quanta più responsabilità siamo disposti ad assumerci verso la nostra vita, tanto più ne diveniamo padroni, tanto meno ci sentiamo vittime delle situazioni, impotenti, rancorosi o rassegnati.
Essere responsabili di qualcosa significa che “siamo noi a pensarci”.
Saper interpretare il significato della parola responsabilità, è rivoluzionario per la nostra intera cultura; tradizionalmente significa “rispondere delle proprie azioni”, ma la questione è “A chi?”
Se dobbiamo rispondere di noi sempre a qualcun altro, alla gente, alla società, alla Legge, a Dio, allora non è vera responsabilità, ma è subordinazione, finché non impariamo a rispondere della nostra vita di fronte a noi stessi.
Il percorso di guarigione deve riscattare il senso di responsabilità da quell’accezione colpevolizzante e retroattiva in cui è stata ridotta.
Siamo stati abituati a pensare che responsabilizzarsi significhi imparare a comportarsi secondo determinate regole e aspettative altrui, secondo un giudizio di giusto/sbagliato, da accettare anche se non ci corrisponde necessariamente, e infine essere disposti a pagare, per i nostri errori e trasgressioni, non una volta, ma a tempo indeterminato, senza possibilità di riparazione. Ci responsabilizziamo come davanti a un tribunale cui dobbiamo rendere conto del nostro discredito.
Un sistema simile è un’istigazione alla deresponsabilizzazione.
Invece la prima assunzione di responsabilità personale è quella di essere giudici e arbitri delle proprie scelte.
Top dog / Under dog
Questa è una polarità di due termini che la Gestalt ha adottato dal gergo anglosassone, e che possono essere tradotti liberamente come il Capo Branco e lo Scagnozzo.
Dentro la nostra psiche abitano diverse caratteristiche, strutturate come sotto-personalità legate a diversi complessi di esperienze.
Sopra a tutte le altre però ce n’è generalmente una, che ha una funzione di comando, purtroppo dispotico, accusatorio e vessatorio, che è appunto quella chiamata “Top Dog”.
E’ lui il nostro Giudice più spietato, che indaga, ci accusa e ci condanna senza appello, più severo che con chiunque altro e di chiunque altro.
E’ difficilissimo -ma è fondamentale- accettare di riconoscersi in questo ruolo auto-persecutorio, appunto in quanto siamo abituati a deresponsabilizzarci e a viverci nel ruolo della vittima, a immedesimarci nello “Scagnozzo”, tartassato ingiustamente dal destino.
Proprio riprendendoci la parte del “persecutore” interno, noi possiamo liberarcene (e liberarlo a sua volta), perché ammettendolo e recuperandolo in noi, ne acquisiamo anche tutto il potere.
Non solo, ma in questa operazione, possiamo riconoscere, nel nostro Giudice, tutti i modi di fare e di pensare, tutti gli atteggiamenti, le convinzioni, la mentalità, che non erano nati da noi, ma dal sistema emotivo di controllo in cui siamo cresciuti e che abbiamo introiettato.
Il conflitto intrapsichico
Un conflitto intrapsichico è alla base di quasi tutto il disagio psicologico, in modo diretto (ansia) o indiretto (depressione), ramificandosi man mano in forme complicate, tortuose, mimetiche, labirintiche, al punto da riuscire a far perdere le proprie tracce.
Il conflitto può derivare dall’ambivalenza rispetto a due spinte incompatibili tra loro, ma molto più spesso deriva dal nostro rifiuto di un’ambivalenza.
Nella Gestalt, figura e sfondo costituiscono una coppia ambivalente (come in molte delle immagini presentate in queste pagine), ma non per forza in conflitto.
Questo viene dalla necessità fisiologica di scegliere tra l’una o l’altra rappresentazione per una limitazione della nostra percezione. Come se solo una delle due possibilità fosse vera o falsa, giusta o sbagliata. Le due figure non sono in realtà in conflitto, ma prevale la nostra necessità sceglierne una sola, eliminando l’altra.
Come nella percezione visiva, anche negli altri campi dell’esperienza, l’origine del conflitto può ricondursi a una nostra rigidità e scarsa creatività nell’adattamento. Rappresenta la difficoltà, o il rifiuto, di rispondere liberamente alle necessità di ambienti, persone e diverse particolarità con cui entriamo in relazione.
Molta dell’energia che potrebbe essere impiegata per un creativo adattamento in situazioni che sentiamo squilibranti, viene consumata invece nel combattere e sopprimere il conflitto in sé.
L’incompatibilità che vediamo tra le polarità di un conflitto, appartiene più alle nostre categorie mentali, i filtri attraverso cui guardiamo.
La differenza tra un adattamento creativo e un adattamento fobico sta nella rigidità in cui quest’ultimo cerca una coerenza.
L’ambivalenza, anche conflittuale, può essere invece la via per confrontarsi, al di là degli schemi, con la complessità del mondo esterno e con quella dei propri sentimenti, liberandosi da condizionamenti preconcetti.
Attraversare il conflitto può così rivelarsi una fonte di molteplicità e versatilità, con cui arricchire la rappresentazione che abbiamo di noi stessi.
Dipendenza / autonomia
Il sistema di deresponsabilizzazione in cui ci formiamo, prevede un’inversione e una confusione di prerogative tra sé e gli altri.
Proiettiamo nello sguardo degli altri i giudizi e i pregiudizi del tribunale mentale presente al nostro interno. Incolpiamo gli altri dei nostri problemi e, nei casi peggiori, attribuiamo agli altri proprio le cose che rifiutiamo di noi stessi: guardiamo la proverbiale pagliuzza nell’occhio altrui per non vedere la nostra trave.
Siamo anche disposti oltremodo a responsabilizzarci per gli altri, pur di non assumerci la responsabilità della nostra vita.
Nel nostro affacciarci al mondo delle relazioni in cerca di punti di riferimento, assorbiamo in modo acritico convinzioni e pregiudizi e lasciamo che prendano il governo incontrastato dei nostri pensieri e automatismi decisionali.
Le ragioni della dipendenza sono molteplici, legate tutte alla convinzione di non essere “abbastanza”: non abbastanza capace, non abbastanza intelligente, non abbastanza sicuro, non abbastanza sano, apprezzabile, equilibrato, ecc. Da questi motivi consegue la convinzione di aver bisogno di qualcuno che compensi la nostra incapacità di stare bene al mondo, la nostra inadeguatezza alla vita indipendente.
Questa sorta di pregiudizio che abbiamo su noi stessi, è il prodotto di un’accettazione condizionata con cui ci siamo sentiti accolti nel mondo, sono convinzioni assorbite rinunciando alla propria crescita come adulti in cambio di protezione e amore, non importa se frutto di messaggi realmente ricevuti o fraintesi.
Autonomia significa regolarsi da soli e, per poter far questo, occorre sapere cosa è buono per sé e cosa non lo è.
Sembra una prospettiva difficile, considerando che i bambini non vengono educati a sviluppare questo discernimento. Sono gli adulti in genere che decidono cosa va bene per i piccoli.
Solo che, in realtà, nessuno meglio di te può sapere di cosa hai veramente bisogno.
Se manca questa presa di coscienza, vedremo sempre l’altro come un tutore che può esentarci dalle nostre scelte.
Scegliere è il nostro modo di definirci, ma anche il modo di scoprire chi siamo e di riconoscerci.
Autonomia non significa autarchia, autosufficienza, non significa, cioè, non aver bisogno di niente e di nessuno. Questa è un’illusione di onnipotenza, spesso una difesa “contro-dipendente” dalla paura del potere dell’altro.
Piuttosto l’autonomia è basata sulla capacità di provvedere a se stessi, cioè di auto-sostegno, che include anche la capacità di riconoscere quando si ha veramente bisogno, la capacità di chiedere, quando è il caso, e anche la capacità di rifiutare un aiuto che non corrisponda alle nostre esigenze.
Autonomia dunque è il potere di aprirsi agli scambi con gli altri per procedere meglio sulla propria strada.